Giuseppe Pignatone, Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria
La magistratura ormai è diventata un potere fuori controllo. Rischia di fare dei danni gravi, di far saltare gli equilibri fondamentali che regolano il funzionamento della nostra società, e di devastare lo stato di diritto. Purtroppo, al momento, il mondo politico sembra cieco di fronte al pericolo. C’è solo Silvio Berlusconi che lo denuncia, ma è poco credibile perché, tra le tante vittime dello strapotere dei giudici, lui certamente è la meno innocente. I suoi nemici invece sono convinti, ahinoi, di poter trarre profitto dallo scontro tra Berlusconi e il potere giudiziario, e quindi se ne infischiano, anzi alimentano la corsa dei giudici all’onnipotenza. E' così: l’Italia è nelle mani di una classe dirigente e di un ceto politico molto poco responsabili, non all’altezza dei propri compiti.
La guerra tra magistrati che si è aperta in Calabria, e che ieri ha visto il procuratore di Reggio, Giuseppe Pignatone, azzannare il dottor Alberto Cisterna, numero due dell’antimafia nazionale, è uno degli esempi più limpidi, e preoccupanti, di questo impazzimento del potere giudiziario. Pignatone ha deciso di iscrivere Cisterna sul libro degli indagati (e la notizia – chissà per quali misteriose vie! - è stata fornita al “Corriere della Sera”) sulla base della testimonianza di un pentito che nessuno, in Calabria, ritiene neppur minimamente attendibile. Mentre è opinione comune che la moralità del dottor Cisterna sia fuori discussione.
Io, che sono vecchio, mi ricordo molto bene quando, tanti anni fa, un certo pentito Pellegriti, uomo di mafia, accusò in modo generico e senza riscontri Giulio Andreotti di contatti con “Cosa Nostra”; il giudice Falcone, nel giro di due ore, fece una cosa molto semplice: incriminò Pellegriti e dispose il suo arresto.
Vi assicuro che Pellegriti, nonostante tutto, aveva più credibilità del pentito Lo Giudice detto il “nano”. Perché Falcone fu così duro con lui? Perché avendo una grandissima conoscenza della materia delicatissima del “pentitismo”, Falcone sapeva quale fosse il pericolo: che i pentiti iniziassero loro stessi a diventare protagonisti, usassero la magistratura ai loro scopi, destabilizzando e soprattutto portando la giustizia lontanissima dalla verità. Falcone aveva costruito su un pentito - Tommaso Buscetta - la sua grandiosa opera di investigazione e le sue scoperte sulla mafia, ma sapeva anche che i pentiti andavano maneggiati con grande cautela. E che bisognava, spesso, diffidare di loro.
Francamente il dottor Pignatone, nel caso di Lo Giudice, non ha mostrato grande cautela. Ha creduto a una sua testimonianza basata per altro non su conoscenza diretta e nemmeno sul sentito dire, ma su una intuizione (“avevo l’impressione che mio fratello avesse...”) e invece di reprimere la calunnia ha proceduto all’iscrizione di Cisterna nel registro degli indagati e non ha impedito che la notizia arrivasse ai giornali. Producendo un danno di immagine e di credibilità incalcolabile ad uno degli uomini chiave dell’antimafia nazionale.
Diciamo che, al momento, questa partita – cioè questa guerra nella magistratura – la sta vincendo la ’ndrangheta. La quale, potete starne certi, stasera brinda a champagne per il colpo portato a segno dal “nano”.
Cosa si può fare adesso, per impedire che il “suicidio” dello Stato prosegua? Ripeterò quello che ho detto altre volte, e ancora recentemente, in garbata e serena polemica con il dottor Pignatone.
Primo, occorre riformare la legge sui pentiti, profondamente, in modo da ridurre al minimo la possibilità dei pentiti di essere decisivi nell’orientamento delle indagini e nelle loro conclusioni, e ridimensionando consistentemente il regime premiale. I pentiti non devono essere, come sono adesso, i padroni della Giustizia.
Secondo, bisogna intervenire per spezzare il cerchio di “complicità” tra magistratura e stampa, e cioè la tendenza di pezzi importanti di magistratura ad usare la stampa come un proprio strumento “punitivo” o “ricattatorio”. E' molto difficile che la stampa possa sottrarsi a questa sua subalternità da sola, perché è difficile rinunciare alle notizie e agli scoop. E allora deve intervenire la legge.
Terzo, si deve procedere a una riforma della giustizia che restituisca alla magistratura il suo ruolo essenziale nel funzionamento di una società democratica e le impedisca di compiere continuamente irruzione in ambiti di potere che non sono suoi e di usare le proprie competenze al fine di vincere battaglie politiche e di potere. Separazione delle carriere, riforma del Csm, riforma delle intercettazioni, eccetera.
Non c’è molto tempo da perdere. L’idea che riformare la magistratura sia un atto che va nella direzione dell’aiuto alla malavita è follia. E' il contrario. Non è possibile combattere davvero la malavita con la magistratura ridotta come oggi è ridotta. Se la stessa lotta alla mafia diventa uno strumento per altre battaglie politiche, statene certi, la mafia vincerà sempre.
Piero Sansonetti,
CalabriaOra - 18 giugno 2011